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Li abbiamo conosciuti così. Dio del cielo.
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Poi, nel 1995, li abbiamo visti così, bagnati fradici con le facce sofferenti.
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Dopo di che, sono diventati così, all’alba dei trenta e in quattro, cioè quando ti rendi conto che forse l’apice del successo sta scivolando via senza che tu possa fermarlo, ma di fatto sei ancora giovane ma non giovanissimo e ti sei anche un po’ rotto le palle di fare i balletti coordinati che anche basta.
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Poi sono ritornati nel 2010, con Robbie che sembra più una guest star nel gruppo nel quale è cresciuto; della serie: va bene, non ho niente da fare quest’anno, torno con il gruppo però io canto e ho la stessa tua importanza Gary, chiaro?!?
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Adesso, nel 2015, trent’anni dopo essere nati come boy band e venti da Back for good, sono rimasti in tre, i segni impietosi del tempo sono visibilissimi e il palcoscenico in cui presentare il nuovo disco non è più il fastoso SanRemo che spendeva cifre esorbitanti per averli come ospiti e neppure Bruno Vespa o i programmi della domenica, ma nientepopodimenoche Verissimo. Il sabato pomeriggio. Su Canale5.
Che tristezza.
Eppure il nuovo singolo che ho ascoltato in radio (e mi ricordo di aver anche pensato che la canzone fosse carina e orecchiabile e a domandarmi chissà quale nuovo dimenticabile gruppo sono) mi ha fatto lo stesso effetto sorpresa della prima volta che ascoltai Back for good.
Succede così: suppongo si possa chiamare giornata no, cioè quel genere di giornata che inspiegabilmente per sconosciute cause astrali, qualunque cosa si faccia non va, tipo inchiostro e i pennini decidono di sporcare la tavola creando quelle bolle che invece di lasciare il segno che vuoi, te le rovinano. Ci provi comunque, la voglia e l’ispirazione non sono molto alte, però il pensiero psicologico di perdere una giornata di lavoro ti fa stare lì fino a che tocca alzare bandiera bianca e arrendersi, più che altro per non fare danni peggiori di quelli già fatti ‘che poi altro che mezza tavola da recuperare, c’è da rifarne dieci, con la speranza che il giorno dopo si sia più prolifici. Una volta mi sarei incazzata come una iena, oggi, sarà che sto invecchiando, accetto il dato di fatto con una saggezza che spesso mi sfugge. Insomma, mi dico che almeno posso rimettermi in pari con la lettura e mi prendo “Abissinia!” spostandomi sul divano, indicatore di resa totale delle armi. E accendo la televisione. Penso: sono le 19 e StudioAperto lo perdo che è una bellezza. Mi sbaglio, ovviamente e mi ritrovo a guardare l’ennesimo servizio mascherato per poterci infilare gli One Direction. Il servizio racconta dell’ospitata dei Take That a Verissimo, di quello che sono stati e del nuovo singolo dal nuovo album uscito nella prima parte dell’anno e ovviamente, immancabile, il collegamento agli One Direction, a Zack che se ne andato e che chissà se anche loro tra vent’anni saranno come i Take That. Dio ce ne scampi, ho pensato. Ma ho anche pensato: i Take That hanno fatto un nuovo singolo? Quindi vuol dire che esiste un album… Ricerca veloce da due clic e, nella più totale indifferenza, la notizia. Trovo un sito che mi rimanda al video su Mediaset dell’ospitata e del nuovo video.
Guardo il primo e la tristezza si profonde in me come poche cose.
Gary, Mark e Howard entrano nello studio dopo i soliti preamboli inutili e la Toffanin che è tutto un abbracciare e appoggiare mani sulle spalle, tipo grandi amici. Vabbe’. Poi la moglie del PierSilvio annuncia un video giusto per ricordarci chi sono i Take That come se non lo sapessimo ed evidentemente per chi avesse meno di vent’anni come se il sabato pomeriggio stessero davanti alla tv e soprattutto a guardare Verissimo. Comunque. Il video sui tre rimasti invece di aver un effetto celebrativo assomiglia a una doccia fredda e le loro facce sono talmente eloquenti che non serve nemmeno spiccicare parola. Quasi imbarazzante, per quanto loro siano gentili e comunque gente che ne ha masticate di ospitate in tv. Eppure riescono a dire che non capivano esattamente cosa accadesse perché tutto era troppo veloce; riescono a dire che l’inizio della fine è stato l’abbandono di Robbie; riescono a dire, Gary almeno, che l’invidia verso Robbie di cui si vociferava era vera.
Nell’articoletto scritto sulle Spice Girls, ho inserito un video nel quale si vedono Melanie C ed Emma a un concerto della prima che entra sul palco con Emma tenendola per mano e che, come regalo agli astanti, cantano insieme “2become1”. E’ tutto lì, in quel momento, nella commozione nel cantare di nuovo insieme, nella passione con cui cantano, nei continui abbracci tra le due, negli occhi lucidi quando sta per finire quel momento. Melanie C ed Emma, in quel momento, mentre si guardano non sono con noi, sono in altro mondo, un mondo tutto loro, ce lo trasmettono, sono in una dimensione parallela che non solo celebra quello che erano, ma la nostalgia di quegli anni, del non avere compreso in pieno quello che è passato troppo velocemente e che oggi, celebrandolo appunto, hanno finalmente capito. E ce lo fanno capire: eravamo Grandi e non lo siamo più, ma possiamo ricordarlo romanticamente e condividerlo ancora, così, per non dimenticare, serve solo a noi, ma ci serve. E’ un video bellissimo in realtà, perché ci fa vedere due quarantenni che quando avevano vent’anni le loro facce erano appese in quasi tutte le camerette degli adolescenti di metà anni novanta, che guardano al passato con quella nostalgia bella, quella senza rammarico e con un fatalismo non drammatico, ma ineluttabile e accettando che non tornerà più.
Nei volti dei tre Take That, al contrario, non c’è nessuna commozione, non c’è nessuna gioia, non c’è nessuna anche solo lontana sensazione di aver compreso che quel successo lì non tornerà più. Quando Gary dice che era geloso della carriera solista di Robbie, non c’è un barlume del classico abbassare la cresta, anzi sembra quasi che, mentre ammettono che la loro fine è coincisa con l’addio di Robbie, ce l’abbiano ancora con lui per questo. Come se nel frattempo non fossero passati venticinque anni, come se qualche neurone della loro testa continuasse testardo a immaginare loro stessi sulla cresta dell’onda, come se, se Robbie non fosse andato via, loro sarebbero ancora lì, in paradiso. Come se vivessero in un mondo loro impermeabile alla realtà. Addirittura, Gary dice anche che essere in tre è un nuovo inizio, una nuova avventura, il che per carità è forse ammirevole nell’avere ancora stimoli, ma sottolinea ancora di più il volere fortemente rimanere legati a quel mondo, a sopravviverci, a tentare ancora e ancora di combinare qualcosa, anche solo una canzonetta da classifica dimenticabilissima. Certo, la Toffanin deve fare il suo lavoro e le sue domande vanno a ripescare situazioni talmente vecchie che non interessano più nessuno ma che forse infastidiscono un po’ i tre che magari, magari, preferivano parlare del loro nuovo disco piuttosto che rivangare quel glorioso passato.
Quando rivedi le Spice Girls oggi, vedi delle quarantenni che, dopo quel clamoroso successo, si sono reinventate in un qualche modo, nella misura in cui riesci a essere credibile dopo essere stata una Spice: chi ha un programma radio, chi continua a cantare o a fare i musical in teatro con per altro discreto successo nei confini nazionali, chi semplicemente è sticazzi signora Beckham, chi si è ritirata, chi ha provato a combinare altro nell’ambito musicale. Ma non c’è quella sensazione di fastidio o di orticaria che provi per i Take That.
I Take That ti sembrano una minestra riscaldata che però qualche legge del mercato l’ha capita, si è adeguata alla discografia trasformata e in quattro, in tre, o anche in due ci provano ancora quasi a non voler lasciare andare quei fasti che non possono più esserci.
Poi, certo, la Toffanin ci mette sempre del suo e annuncia Scamarcio e la Chiatti ultimamente prezzemolini di qualunque trasmissione radio e televisiva per promozionare il loro nuovo film tratto dal romanzo del nuovo Fabio Volo Luca Bianchini e ti ritrovi questa scena surreale dei Take That con Scamarcio e la Chatti, poi c’è anche Alvin e si fanno tutti un selfie. Che per i canoni di oggi probabilmente viene catalogato come Grande Momento Televisivo. Cioè.
(qui il video da Verissimo, se lo volete vedere)
Ripresami un attimo da ciò che ho appena visto, già che ci sono mi guardo anche il video del singolo dei tre. E lì, quando parte il ritornello la sorpresa mi si dipinge in faccia con quella smorfia classica di quando la gravità cattura la tua mascella. Quella canzone lì è la loro? Ma dai! Ma sono loro? Che poi sono le esatte parole che mi dissi vent’anni fa ascoltando per la prima volta Back for good in radio, solo che se oggi mi basta un clic, all’epoca ho dovuto aspettare mezza giornata e beccare che passasse il video su MTV.
A parte essere orecchiabile e dunque perfetta nei pomeriggi concentrati sulle tavole, pomeriggi in cui la radio accesa è solo rumore di sottofondo che non infastidisce, guardando il video ho pensato solo due cose: che cazzo di fisico che ha ancora Howard e la seconda è più un sospiro di sollievo nel vedere che oggi i Take That almeno non ballano più, fanno giusto tre mosse che riesce a fare anche uno con la sciatica e ci risparmiano l’imbarazzo e il cadere nel ridicolo dell’ancheggiare come cinque lustri fa anche perché ci sono ballerini contorsionisti che lo fanno per loro, grazie al cielo.
Era il 1995. Io e mia sorella eravamo nella cucina della nostra vecchia casa vicino al borgo San Giuliano. Sarà che è la casa nella quale sono cresciuta ma i miei ricordi di quella cucina hanno sfumature gialle, quelle sfumature sfocate del taglio della luce di quegli anni, forse per via delle tende luminose, ma ho queste immagini sul giallo, sull’arancio, un qualcosa di caldo. La cucina era la tipica cucina vivibile, di quelle grandi con divano e televisione, delle case di una volta, quello spazio casalingo in cui passi molto tempo, il tempo vissuto, e sui ripiani c’è la vita, quegli oggetti che usi, che non sono lì sopra giusto per, dal rotolo dello Scottex ai barattoli di caffè e zucchero, dalla bottiglia d’olio al contenitore dei cucchiai in legno, dal bollitore dell’acqua al microonde, e lì, tra tutti questi oggetti, una vecchia radio bianca degli anni ’70, di quelle con la rotella laterale, qualche pulsante sopra, il nastro nero su bianco delle frequenze radio e i numeri a casella che scattavano ogni minuto. Quando sei piccolo o adolescente, la cucina non ha ancora assunto un significato preciso per te giovane creatura che cerca di capire l’esistenza; per te è solo una stanza che c’è in casa ed è prerogativa della mamma, anche perché tanto ti hanno insegnato a stare lontano dai fornelli, fino a che magicamente un giorno inizi ad usarli solo per scaldarti l’acqua per il tè e allora piano piano la cucina inizia a essere intravista non solo come luogo di condivisione dei pranzi e della cene con i tuoi, ma potrebbe avere anche una sua funzione.
Non ricordo cosa facessimo, io e mia sorella, non ricordo che ora fosse, se non che a un certo punto passa questa melodia dolce, questa nenia godibilissima. E io che mi chiedo chissà chi canta questa canzone. Non ricordo nemmeno se passarono giorni prima di scoprirlo o fu lo stesso giorno, ma la mia sorpresa è stata la stessa di qualche giorno fa: Quella canzone lì è la loro? Ma dai! Ma sono loro? Sì, erano loro.
E allora ricordiamoli così, perché in fondo quel sottile scoppiettio dentro lo proviamo ancora quando la riascoltiamo e probabilmente la canticchiamo anche, ormai senza vergognarsi perché certe cose sono talmente lontane che hanno fatto il giro e oggi non ce n’è più motivo. Riascoltiamoli così, quando c’erano solo loro, e non come oggi che, sì, esistono ma è come se non esistessero, assolutamente confondibili con qualunque altro dimenticabile gruppo musicale che passa in radio e al quale non si presta molta attenzione.
L'articolo vent’anni di “back for good” dei take that sembra essere il primo su Una parte di cielo • Il blog di Mabel Morri.